Le parole di Massimo Sgroi sulla mostra “Manifestando”
Il contributo di Massimo Sgroi critico d'arte e direttore del Museo di Arte Contemporanea di Caserta, che partecipa alla mostra "Manifestando"
Esistono modi diversi di affrontare la creazione artistica: uno che si limita a sottostare alle logiche del mercato dell’arte, alle sue oscure regole, ad una sorta di neoliberismo culturale che prescinde dal valore in sé dell’opera e del progetto creativo.
L’altro è quello di essere un “detonatore” di un accadere, essere, nel caso di Lucio Amelio, la spinta propulsiva della ricerca artistica strettamente legata al tessuto sociale.
Lucio era il più artista fra i galleristi, era lo sperimentatore, il visionario dei progetti avanzati che lo ha portato, addirittura, a far esibire nella stessa mostra i due creatori più antitetici nel campo dell’arte visuale: Andy Warhol e Joseph Beuys.
Ma il precorso di Lucio non è solo quello, visione e ricerca, no, esso racconta una storia, una storia di passione in cui l’amore per l’arte si sovrappone all’elogio della follia individuale.
I manifesti delle sue mostre raccontano questo percorso come fosse una lunga corsa senza prendere fiato e, altresì, rendono visibile la genialità del gallerista napoletano, la sua attenzione al marketing legato, più che alla narrazione dell’evento, all’immagine stessa del progetto.
Lucio aveva capito, anticipando i tempi, che gli artefatti, in questo caso i suoi manifesti e riviste, stavano per sostituire il codice linguistico di una forma dell’umano ormai in via di sparizione.
Questa sua attenzione maniacale sottintende quella che Jean Baudrillard chiamerà, molto tempo dopo, la creazione del simulacro che sottintende l’annullamento, o per lo meno la riduzione, dello scarto che esiste fra l’osservatore dell’arte ed il progetto dell’arte stesso, ovvero la mostra e le opere in essa contenute.
Probabilmente egli aveva ben chiaro il concetto di Marshall McLuhan in cui il medium è il messaggio, in cui il manifesto era, simbolicamente, la sintesi della mostra stessa. Molto tempo dopo, sempre Baudrllard scriverà: L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ma, questo, è l’estremo limite dei mondi elettronici in un processo cominciato già negli anni ’60, proprio nel momento in cui l’estetica passava da una sua funzione naturalista ad una forma medialistica.
Pur conservando lo spirito del gallerista artista ed il rigore etico che, necessariamente, ne deriva, Lucio Amelio aveva, comunque, già intuito che lo scambio di in formazioni fra i collezionisti ed i galleristi che determinavano il prezzo dell’opera, sarebbe stato presto sostituito da un meccanismo caotico basato su dei fondamenti irrazionali ovvero il concetto di opera come feticcio e non più relazionato alla funzione estetica ed alla ricerca.
Forse anche per questo ha voluto lasciare alla storia dell’arte contemporanea la sua sostanza artistica attraverso i manifesti e le riviste, senza per questo invadere lo spazio del mondo creativo dell’artista: l’opera.
Questa mostra serve a raccontare una storia, una folle corse attraverso la mutazione estetica che va dalla metà degli anni ’60 fino alla morte di Lucio avvenuta il 2 luglio del 1994, essa non è una mera successione die manifesti delle mostre di Baseliz, Barcelò, Cy Twombly, Von Gloeden, Warho, Beuys, Mepplethorpe, Rauschemberg, Kounellis, Haring, Penck, Immendorf e Gilbert&George, solo per citarne alcuni, è, piuttosto, un viaggio simbolico nello spirito del tempo, nella capacità di leggerne sempre le trasformazioni nella sua parte più avanzata: quella dell’arte. Perché, come si intitola un famoso film degli inizi del ‘900 (poi ripreso dal collettivo artistico francese Claire Fontaine ed in un libro di cultura alternativa degli anni ‘70): “L’amore mio non muore”.
Si, Lucio, è proprio così, l’amore resta, sempre!